Giuseppe Pellizza da Volpedo nel 1901 dipinse la marcia protestataria dei braccianti agricoli. Oggi sceglierebbe i protagonisti epici della lotta contro il covid-19 (infermieri, medici, ricercatori e tutti gli operatori sanitari) per rinnovare il profilo etico, sociale e democratico dell’articolo 1 della Costituzione.
Immaginate di visitare il Museo del Novecento a Milano. Un pathos reverenziale vi assale al cospetto della grande opera (olio su tela 293 x 545 cm.) che rappresenta le rivendicazioni dei lavoratori di fine Ottocento. Una tela che trasuda lotte e sofferenze. Fu boicottata dall’élite – artatamente miope – dell’intellighenzia ed ostracizzata dai grandi eventi: Torino nel 1902, Quadriennale a Roma nel 1904, Esposizione per il traforo del Sempione nel 1906. L’anno seguente Giuseppe Pellizza da Volpedo, profondamente depresso, si suicidò come tanti artisti talentuosi fra cui il celebre ed incompreso Vincent Van Gogh.
Il successo postumo del “Quarto Stato” suffragò l’arte di Pellizza che divenne l’icona archetipale dei diritti civili, della giustizia sociale e dell’emancipazione femminile. Il quadro pellizziano entrò legittimamente anche nella storia del cinema nel 1976 (il cult movie “Novecento” diretto da Bernardo Bertolucci).
Immaginate di mettere la mascherina alle figure in primo piano nella tela del “Quarto Stato”: due uomini che potrebbero essere un infermiere ed un dottore, una donna che potremmo identificare in una ricercatrice del trio Spallanzani. Cambiano i
protagonisti nell’immanenza del tempo. Ma l’articolo 1 della Costituzione è ancora lontano dal traguardo evolutivo e sociale.
Alla vigilia del 1° maggio i sondaggi delle organizzazioni giovanili confermano una crescente disaffezione verso le istituzioni. Senso dello Stato e coscienza civica diventano personaggi pirandelliani in cerca di autore. I tradizionali capisaldi della
rappresentanza sociale (partiti e sindacati) attraversano una fase magmatica di ridefinizione identitaria.
In uno scenario di precarizzazione ormai endemica emerge dalle grandi aree della sensibilità sociale una nuova imprenditoria giovanile che si autoreferenzia e si autogestisce autonomamente dal basso. È il privato sociale che opera fra le pieghe de territorio in assoluta aderenza alla pelle delle criticità. Percepisce e condivide un humus vitale di attese, rivendicazioni, speranze. Colma il gap fiduciario sempre più profondo fra i palazzi del potere ed il Paese reale. Gli operatori di base costituiscono la prima linea di un nuovo welfare che ascolta, interpreta e rappresenta.
L’ACSI ritiene che l’imprenditoria sociale sia in grado di travalicare il “rubicone” tra i modelli aziendale e pubblico in quanto ispirata dal non profit e dalla finanza etica verso traguardi al servizio della comunità e non del profitto. Un’inversione di
tendenza per esplorare modelli alternativi e sostenibili attraverso percorsi di sperimentazione e di innovazione. In questa direzione si è finalmente pronunciata la politica con la riforma del Terzo Settore per valorizzare e sostenere le preziose risorse
dell’associazionismo di base.
“La società civile è composta da associazioni e movimenti – sostiene il sociologo Jurgen Habermas – che più o meno spontaneamente intercettano e intensificano la risonanza suscitata nelle sfere private dalle situazioni sociali problematiche per poi trasmettere questa risonanza amplificata alla sfera politica.”
Pertanto le forze politiche del nostro Paese sono chiamate – oggi più che mai – a mettere in campo provvedimenti legislativi ed investimenti per le emergenti start-ups giovanili in sintonia con le più evolute democrazie dell’Unione Europea dove
proliferano oltre due milioni di imprese sociali. Dobbiamo agganciare le politiche giovanili alle opportunità della nuova Europa solidale che elabora paradigmi sostenibili di occupazione e di sviluppo per i cittadini dell’immediato futuro.